Cantina Mazzola

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Ricordo ancora la prima volta che ho fatto il vino e l’enologo mi ha chiesto al momento della vendemmia: “Allora Manuel, che vino vuoi fare?” (Ride) Io gli ho risposto: “Come? Posso decidere io?” Non lo sapevo ancora, sembra quasi una domanda stupida quella che feci: l’ho scoperto negli anni, ma la mia risposta è stata soprattutto di adesione totale al territorio.

Come nasce la passione e l’impegno nel produrre vino della vostra cantina

Volevo fare il venditore, però il punto è creare, non vendere. Sono figlio di imprenditori e questa è stata la mia storia per un certo tempo. Ho studiato ragioneria, mio fratello ha fatto il geometra e io mi son dedicato all’economia e da lì alla borsa. Sono diventato un trader professionista ed ero uno dei migliori in Italia in un ambiente dove uno su mille ce la fa. La borsa ti obbliga a conoscere te stesso.

Ho imparato ad analizzare tutto sotto un occhio cinico e attento, me stesso e gli altri. Eliminare gradualmente le emozioni e ragionare come un computer per poter sbancare. La paura ti frena, ti impedisce di fare il tuo lavoro? Ne cerchi la causa e la elimini. L’euforia ti ha fatto sbagliare? Ne cerchi la causa e la elimini. È un fatto mentale, di preparazione, ho imparato tutto per essere tra i migliori. Avevo imparato tutto, ma mi dava una noia mortale.

Questa spinta imprenditoriale trascinava la mia vita in avanti. Si lavora perché si deve, per portare a casa la pagnotta. Ma era inevitabile farsi certe domande e mi chiedevo soprattutto: ma quando avrò sessant’anni sarò ancora qui a fare queste cosa perché si deve? La noia era insopprimibile. Era una noia che scaturiva soprattutto dalla limitatezza del mondo in cui ero invischiato.  

Ci sono rimasto di sasso quando ad un certo punto mi sono reso conto di quanto fosse vasto il mondo del vino. Sentire certe cose, le infinite possibilità di trasformazione… Il fatto che sotto la mano dell’uomo la natura rispondesse in modi inaspettati e magnifici. Questo è ciò che mi ha affascinato del mondo del vino: soprattutto l’ampiezza del suo panorama, l’impossibilità di raggiungere un confine e il perpetuarsi infinito della natura che risponde alle tue azioni, rinnovandosi.

La natura poi mi aveva sempre attirato, non so perché, ma andavo sempre a pescare. Immagino fosse innanzitutto per sfuggire a quel mondo di trading. Ma la diversità sta soprattutto nella creazione. Fare il venditore significa comprare una cosa a 10 e rivenderla a 11. Uno scambio, nulla di creato. La vigna è tutt’altra cosa.

Ricordo ancora la prima volta che ho fatto il vino e l’enologo mi ha chiesto al momento della vendemmia: “Allora Manuel, che vino vuoi fare?”  (Ride) Io gli ho risposto: “Come? Posso decidere io?” Non lo sapevo ancora, sembra quasi una domanda stupida quella che feci: l’ho scoperto negli anni, ma la mia risposta è stata soprattutto di adesione totale al territorio.  

Non vi ho fatto una premessa importante: io sono di Bergamo, ma sono stato spesso nelle Marche in gioventù perché mio padre aveva acquistato una casa per le vacanze qua a Senigallia, in collina. Ad un certo punto mi sono reso conto di una cosa: che questo era il solo posto dove mi sentissi a casa, quel luogo da cui se vai via ad un certo punto ne senti una mancanza quasi viscerale. Ti stufa tutto il resto ad un certo punto, vuoi tornare solo lì.

È lì che è scattata la passione: mi sentivo a casa in quel luogo, con un mondo nuovo e sconfinato davanti a me.  Già dal 97’ vendemmiavamo quasi per gioco ed ero contento in una semplice fuga dal mio mondo. Avevamo un ettaro scarso di vigneti e cinquanta ulivi da cui facevamo anche l’olio. Sempre per gioco ho inviato ad un certo punto dell’olio per un concorso. Ho vinto il primo premio!

Lì ho capito che avevo anche il territorio oltre che il mio desiderio.  Dal 2010 ho fatto il cambio vita e son partito a razzo. Già nel 2012 avevo tre ettari di vigne e circa diecimila ulivi. Che vini volevo fare? Semplicemente quelli che la mia terra poteva darmi e anche più di questo. L’ho scoperto negli anni, sgobbando e imparando.

L’imprenditoria di fondo mi è rimasta. Innanzitutto ho acquistato i macchinari che mi servivano per soppiantare la chimica. Una delle prime cose che ho scoperto è che il settore agricolo è quello più inquinante al mondo. Ci sono rimasto male: i primi che curano il territorio sono i primi che ne inquinano le fondamenta. Mi sono ribellato, non volevo essere tra quelli. Ho sperimentato e mi sono diretto tutto sul biologico e il sostenibile. Un’azienda green. Mi sono messo anche a fare vini naturali. Non per moda, la combatto sempre. Ho scoperto che potevo usare quello che avevo già in vigna, i lieviti indigeni, per fare sentire le conseguenze di un’annata e di un territorio. Insieme a questo un lavoro duro in vigna, un lavoro pulito in cantina e moderne tecnologie per estrarre gli aromi del territorio.

In pochissimi anni son passato dal produrre un vino da tavola all’alta qualità. Come ho fatto? In parte è l’insegnamento del trading: conoscere sé stessi per vendere, governare le proprie emozioni. Così ho analizzato di nuovo me stesso e questo mondo che mi si presentava, ma questa volta ho messo in gioco soprattutto me stesso. La storia dei miei vini è anche la storia della mia vita in questo senso. E non ero solo, avevo Ilka, mia moglie e il mio territorio.

Ho scelto di coltivare i vitigni del mio territorio e non piantarne altri più internazionali come ad esempio lo Chardonnay. Qui coltivo soprattutto Lacrima e Verdicchio: si possono fare grandissimi vini con questi vitigni e penso che ancora non abbiano ricevuto giustizia in questo senso.

Come è scattata la passione? Dal territorio. Qui mi sento a casa. La mia storia posso raccontarla tutta tramite il mio vino. Quello che più mi rappresenta? Il Colfondo, perché ha bisogno di star lì e sgobbare e non demordere per tirare fuori il meglio. Direi che il Colfondo è la sintesi della mia storia.

Quali sono i vini che producete?

Noi coltiviamo i principali vitigni della zona: Verdicchio, Lacrima di Morro d’Alba, Montepulciano e Sangiovese. Il verdicchio è un vitigno molto interessante perché è molto acido e longevo nel tempo per cui si possono creare vini molto diversi tra loro ed interessanti semplicemente attraverso il nostro lavoro. Il vigneto è lo stesso per tutti i miei verdicchi, ma ne traggo fuori diverse interpretazioni. Tutti diversi uno dall’altro.

Noi abbiano deciso di creare un Metodo Ancestrale in maniera diversa, nel senso che la gran parte degli ancestrali hanno un affinamento molto veloce, da bere giovane e via. Quando abbiamo creato il Colfondo l’ho pensato come un grande Metodo Classico che con la presenza dei lieviti in bottiglia è capace di evolvere in continuazione e per tanto tempo. È molto interessante e piacevole giocare con questo vino e provare a degustarlo in momenti diversi, perché la presenza dei lieviti contribuiscono a far evolvere continuamente il vino, sia in bottiglia che nel bicchiere.

Sempre con il verdicchio abbiamo creato il Glarus, un vino del mare, l’azienda si trova a 1000 metri dal mare e l’influenza della brezza marina porta le nostre uve ad avere note salmastre, per cui abbiamo deciso di cercare di trasmettere il più possibile il sapore del mare. Sempre con uve verdicchio produciamo il Fontenuovo, cioè un vino da lungo invecchiamento e una incredibile potenza con forti note terziarie, è perfetto da abbinare sia al pesce, ma piatti con pasta al tartufo.

Con la Lacrima produciamo il Sangvineto dove per scelta andiamo ad un affinamento oltre il disciplinare. La moda o l’ideologia per cui la Lacrima sia un vino da bere d’annata, profumato e basta non l’ho mai capita. Abbiamo fatto la scelta di creare un vino importante, dove si ricercano note terziarie, una spaziatura accentuata che la Lacrima sviluppa naturalmente dopo il terzo anno.

Da ultimo, produciamo il Bandita, un vino della tradizione marchigiana che si sta dimenticando. Infatti, il contadino di questa zona produceva tradizionalmente un unico vino con l’assemblaggio di Lacrima, Sangiovese e Montepulciano. Prima producevamo il Rosso Piceno, ma un po’ mi infastidiva il fatto che la DOC fosse così estesa. Le Marche sono un territorio variegato, diversissimo al suo interno. Questa è la zona da Lacrima. Per cui abbiamo deciso di renderla protagonista di questo blend e abbiamo fatto la pazzia di trasformare una DOC in IGT. In cuor mio sogno di fare solo vino da tavola, neanche l’IGT!

Facciamo anche il Vio che è il tradizionale vino e visciole marchigiano, solo che usiamo la base del Sangvineto per farlo, mentre di solito si usano gli scarti. Poi produciamo anche olio di altissima qualità, infatti, i nostri oli sono stati premiati con 3 foglie del Gambero Rosso oltre ad essere stati nominati migliori oli delle Marche più volte. 

Quale vino vi rappresenta maggiormente, e perché?

Il Colfondo, come storia personale, è la sintesi del mio lavoro, come vi ho già detto. L’artista che ne ha disegnato l’etichetta insieme al nuovo logo della cantina ha fatto il disegno basandosi sulla storia personale che gli ho raccontato. Il logo è un cerchio imperfetto tracciato da un uomo che desidera fare dei vini perfetti. È anche l’armonia che si cerca di raggiungere con la natura. È un cerchio imperfetto, perché si sgobba tanto per raggiungere gli obbiettivi che ci si è prefissati. È uno spumante e l’ideale è che stia lì per anni, virtualmente senza limiti di tempo. Una volta che si tolgono i lieviti si castra il vino e ci vuole tempo in bottiglia perché si riprenda ed è così che nasce il Metodo Classico. Io ho deciso di fare l’Ancestrale per lasciare le radici di questo territorio nella bottiglia: i lieviti che si sono formati in vigna e che continuano a lavorare e affinare il vino.

Poi c’è il Sangvineto ed è in un certo senso il mio primogenito, ne sono molto orgoglioso. Nasce nel 2014 e vuole sconfiggere la moda per fare un vino da invecchiamento, come ho già detto. Facciamo invecchiare oltre ai tempi istituiti dalla DOC. Il territorio dà potenza e struttura. È stato un fregarsene delle mode per entrare nel territorio. Non mi importano le mode del momento. Il 2014 è stato giudicato anche il miglior vino delle Marche dopo qualche anno. Per anni sono stato denigrato, mi dicevano che non sapevo fare la Lacrima, ma io ho continuato a fare la Lacrima sempre nello stesso modo, non ho cambiato nulla. Adesso si attaccano al tram e dicono che la lacrima è da affinamento. Da qualche mese… Lo cominciano a dire i grandi che prima mi pigliavano in giro.

Il GlaRus è un rendersi conto che come per il Sangvineto il mio verdicchio non può essere né Matelica né Jesi, deve essere qualcos’altro. È nato dopo che ho letto un articolo di due enologi che si confrontavano, uno di Jesi e uno di Matelica. La discussione era sul verdicchio marino e suonava più o meno così: Jesi dicevano il marittimo è nostro perché noi siamo più vicini al mare. Matelica diceva che la brezza li sorvola e sbatteva sulle montagne, per cui gli aromi erano tutti da loro.

Io sono a un chilometro dal mare e li frego tutti. Tutti i nostri vini sono particolarmente sapidi, più morbidi perché l’acidità spicca di meno. Sono un connubio di mare e di terra.  Il nome del vino? GlaRus significa gabbiano in bulgaro. Il gabbiano è un ricordo d’infanzia, sempre presente. Chiamarlo gabbiano mi sembrava un po’ brutto e la Ilka è bulgara, per cui mi ha suggerito il nome.

Da qui nasce l’acquisto del Gaminede che è un estrattore di aromi. Così riusciamo a far risaltare tutte le sfumature del territorio. Mi ha aiutato molto anche con la Lacrima e col Fontenuovo.  Il Fontenuovo è un vino da meditazione, devi sederti e riflettere con gli amici, sederti, calmarti.  È tutta l’evoluzione che può avere il verdicchio. Prende il nome dal nostro vigneto e vuole esprimere la terra. Completa un dittico mare-terra con il GlaRus. 

Il Bandita l’ho già spiegato ed è una ribellione. Mi rappresenta nel senso che quando mi dicevano che era importante fare i vini DOC e sono andato a vinificare nel 2012-2013 per fare il Rosso Piceno DOC, beh… ho pensato di inserire anche la Lacrima. Dicono che sono un innovatore, ma quello che ho fatto è stato solo attaccarmi alla tradizione e al territorio. È il rispetto della storia soprattutto. Viene fuori un concetto: noi contadini siamo sempre di passaggio, prendiamo in mano la storia, prendiamo il testimone e lo passiamo ad un altro. Possiamo portare la tradizione più avanti e abbiamo questa responsabilità, perciò ecco… questo è il Bandita.

La visciola un’altra rivoluzione, ma non ve la racconto. Mi sono fatto prendere… ho ridetto tutto. Io non so dirti quale sia il vino del mio cuore: forse la storia per intero la racconta il Colfondo.

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Nel rapporto tra tradizione e ricerca della novità, vi sentite più innovatori o conservatori rispetto ai vini del territorio?

Direi che siamo tradizionalmente innovatori. Siamo conservatori, i nostri vini sono naturali e biologici perché l’attenzione alla natura, al consumo di energia, di acqua, ha la nostra completa attenzione.

Siamo anche innovatori, disponiamo di un particolare fermentatore molto all’avanguardia che si chiama Ganimede, che permette una macerazione pellicolare dinamica, un processo capace di esaltare tantissimo il profilo aromatico e al tempo stesso lavoriamo con un bassissimo livello solforosa, praticamente meno di 1/5 di un vino normale.

Quello che cerchiamo di fare è recuperare le tradizioni del territorio, valorizzarle e cercare di creare vini moderni capaci di fare scoprire il territorio a chi beve i nostri vini. Cerchiamo di passare un testimone e per farlo dobbiamo avere una voce che fa presa sull’attuale.

Abbinamento cibo-vino: quale ricetta si abbina meglio alle vostre bottiglie?

Premesso che un vino, se è buono sta bene con tutto! Scherzi a parte, i nostri vini sono molto versatili, in particolare il Sangvineto. Infatti, ha un giusto tannino, molto elegante, che si può sposare bene sia con carni alla brace sia con piatti di pesce in guazzetto e col pomodoro, ma anche con una pizza gourmet con una lunga lievitazione farcita. Se dovessi scegliere un piatto per la nostra Lacrima è senza dubbio il brodetto all’anconetana, come da tradizione. Invece, per il nostro Glarus, direi che sta bene con tutti i piatti a base di pesce, in particolare se si tratta di pesce crudo, ma sta benissimo anche con carni bianche, col coniglio in umido o bevuto come aperitivo. Se dovessi scegliere un solo piatto col Glarus abbinerei ad una Tartare di gamberi rosa dell’Adriatico marinati con il mio olio di Leccio del Corno e una battuta di fragole. Ora mi è venuta fame!

Poi il Fontenuovo può accompagnare sia il mare che la terra, c’è chi ha mischiato tutti e due. Mi riferiscono che si sposa bene anche con il tartufo che è sempre un problema negli abbinamenti con il vino.

Bandita per tutto ciò che è importante o per meditare. Ma in genere tutti i nostri vini sono adatti alla meditazione.

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